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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




D’un sole reticente*
di Roland Barthes

(Traduzione di Giuseppe Crivella)

16 febbraio 2016




Il pittore Eugène Delacroix diceva che per ritrovare ai nostri giorni l’abbigliamento greco in tutta la sua nobiltà bisognava andare in Marocco. Forse, nello stesso modo, è dal marocchino Zaghlul Morsy [1] che noi riceviamo qualcosa di un certo lirismo francese e come il segno superlativo del nostro stesso linguaggio: la deviazione che riconduceva il pittore alla Grecia antica attraverso una civiltà estranea alla nostra tradizione, è la medesima che Morsy ci obbliga a intraprendere per considerare la nostra lingua francese attraversata da un’esteriorità nella sua essenza stessa.

Il poema plurale di Morsy è scandito dalla doppia civiltà, il doppio linguaggio, l’islamico e l’occidentale, il magrebino e il francese, ma tale duplicità Morsy non la rappresenta affatto: egli non dettaglia la lacerazione, non ne fa il bilancio, non l’interiorizza, non la civilizza: si accontenta di iscriverla continuamente nel suo linguaggio.

Da una parte una fonte magrebina costante e tuttavia appena reperibile dietro la metafora variata del sole e del velo (non si tratta di una «ispirazione» esplicita o di una nostalgia etnica): dall’altra parte uno stile in cui si mescolano molteplici origini, vari riferimenti, tutto un fondo di citazioni da cui le virgolette sono eliminate, mediante questo gioco superiore e pericoloso (o scandaloso) che ogni scrittura deve assumere.

In una parola, qui si raccolgono molteplici lingue: in primis la lingua francese, di cui si direbbe che nel giro di poche pagine è percorsa in tutti i suoi anfratti, riconosciuta nelle sue parole rare, nel suo lampeggiamento particolare, nei meandri più civilizzati della sua sintassi; in seguito la lingua poetica, deposito di tutte le poesie anteriori, immagine fantastica (o fantasmatica) di un patrimonio che non è quello dell’autore e che egli svia per renderne sospetta la proprietà nel modo migliore: infine la lingua culturale, che riferisce esplicitamente i poemi a Eraclito, Hölderlin, Al-Hirrâlî e ai loro luoghi di origine, Marrakech, Firenze, Parigi.

Lo spazio citazionale di Morsy (senza il quale non v’è scrittura) esclude senza dubbio altri modelli: il surrealismo, per esempio: ma tali limiti non sono per nulla da leggere come le costrizioni che vengono da una certa cultura (islamo-occidentale), iscritte in ogni lingua, fosse pure poetica, come le sue rubriche obbligatorie.

Ciò che è presente nel libro di Morsy, ciò che è assente da esso, designano quindi proprio ciò che si traspone, si trascrive o, al contrario, si arresta, tace, passando da un paese all’altro, da una lingua all’altra. Il poema allora ci mostra come l’altra lingua (la nostra) è intesa, messa in opera dall’altro lato: questa volta siamo noi ad essere di fronte: di fronte a partire dalla nostra stessa lingua.


* Su Le Nouvel Observateur, 17 giugno 1969. Cfr. OC III, 102-103.

[1] Z. Morsy, D’un soleil réticent, Grasset 1969



Zaghlul Morsy

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